Ho bisogno di mettere le mani in pasta…

È stata la prima cosa che ho detto a Paola quando mi ha accennato del suo progetto del Dolce di san Giovanni. Conosco la sua determinazione e passione, ma non avevo ben chiaro di che cosa si trattasse questa volta. La mia amica è vulcanica, creativa e con una visione grande grande. Mi era chiaro che si trattava di una cosa molto bella e piena di speranza. Con alcune sue amiche e compagne di fede e col sostegno dei ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti stavano partendo le prime produzioni organizzate e solidali.

Sì mettere le mani in pasta. Una sfida per me, convinta di essere capace solo a fare torte mattone, biscotti a suola di scarpa e reduce dall’ennesima crisi micidiale. La mia vita non vale niente, mi ripetevo, sconsolata dalle difficoltà che il mancato rinnovo delle mie consulenze aziendali e una cronica scarsità economica comportavano. La mia fede buddista mi ha sempre ispirato e sostenuto in questi anni. Provavo a rideterminare di rialzarmi perché ogni avversità anche la più grande, può diventare una splendida occasione di evoluzione per una felicità e una vittoria davvero più autentiche.

Sentivo che insieme alla preghiera era importantissimo ripartire da un mio limite e fare con sempre più amore, presenza e consapevolezza le cose che la Vita in quel momento mi proponeva. Un lavoro in serra con Manuela a raccogliere fragole, ripetizioni e lezioni per gli esami di terza media, assistenze notturne in ospedale: preziose opportunità per concentrarmi sul qui e ora e sulla consapevolezza di ogni mio gesto. Ho parlato a ogni fragolina ringraziandola al momento di staccarla dalla pianta. Ho incoraggiato un ragazzo in crisi ad affrontare uno scoglio che gli sembrava insormontabile con coraggio e creatività. Ho sussurrato parole di affetto e speranza a una anziana signora in fin di vita.

Sì bello e, va bene anche sfidarsi, ma fare torte, accidenti! Me lo ripetevo con una lamentela fin troppo appiccicaticcia. E per giunta ero stata io a candidarmi! Poi mi sono detta questa lagna non è da me, e ho deciso. Mi sono messa il soprabito e sono uscita, stanchissima e con gli occhi gonfi di lacrime. Sì mi sono lasciata convincere da Paola ad andare a mettere le mani in pasta. In fondo ero io che lo avevo chiesto. Non potevo mica tirarmi indietro!

La mia paura di essere inadeguata tra amiche e chiacchiere allegre ha rapidamente lasciato spazio ai ricordi bellissimi di quando la nonna mi chiamava in cucina a fare i dolci con lei. Era un privilegio che non avevano tutti i nipotini.

E così i profumi e la forma di conchiglia lievemente croccante del Dolce di San Giovanni mi hanno riportata a lei, Oma, la mia nonna magnifica. Mi chiamava fagianella d’oro con le zampe d’argento perché ero cagionevole di salute e spesso convalescente nella sua bella casa sul lago, in Austria. Ma era la mia fortuna perché così anziché farmi fare i compiti o spedirmi in giardino a giocare con quei maschiacci di cugini, la mia cara Oma mi teneva con sé.

Ora con le mie nuove sorelle e amiche, mentre infornavamo un dolce dopo l’altro mi ricordavo che nonna mi aveva insegnato che quando mescoli un ripieno, finché non senti un certo tipo di rumore del cucchiaio di legno contro la terrina, non devi mai smettere, anche se il braccio ti fa male. Lei aveva una grande energia e una sua saggezza ruvida, ma molto tenera e particolare.

Intanto tra una preghiera, un incoraggiamento e un sorriso, quella prima volta nella piccola cucina che avevamo a disposizione si era fatto tardi. Il profumo era magnifico. Ero riuscita a fare una; anzi, due torte, e anche buone! Ora le mie zampette d’argento brillavano di una luce nuova e quella bella fagianella che non mi ero mai permessa di essere, ora era pronta anche a spiccare il volo e a vedere dall’alto di in un cielo terso tutta la bellezza e l’amore della mia vita.

 

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Sì desidero fare questa esperienza.