Il mio adorato nonno Arthur detto Jack aveva l’hobby della caccia. Verso fine estate si ritirava in una baita nei boschi della Carinzia dove noi nipoti potevamo raggiungerlo per qualche giorno vivendo immersi nella natura, costruendo capanne in mezzo agli abeti e immaginando avventure rocambolesche che avremmo vissuto e superato grazie ai nostri alleati nella natura. Uccelli, scoiattoli, volpi, cerbiatti. Parlavamo con gli alberi e tutte le creature reali e immaginarie della foresta. Eravamo così felici!
Ricordo che una mattina presto il nonno ci portò con sé a una battuta di caccia. Un’esperienza da grandi. Non tutti i nipoti erano stati ammessi. Sveglia prima dell’alba, latte caldo e crostata di albicocche e poi in fila come piccoli elfi con le nostre mantelle di loden dietro ai passi lenti e precisi del nonno.
Ci eravamo appostati in un piccolo avvallamento in mezzo a un gruppo di giovani abeti. Guai fiatare, o muoverci! Faceva freddo e certe voci del bosco al buio e nel silenzio che a poco a poco schiariva, facevano davvero paura.
Poi, all’improvviso il nonno si alza in piedi e mira con il fucile. Un colpo secco e fatale nella testa di un giovane cerbiatto che era saltato con grazia verso la piccola radura di abeti. Noi tre bambini, pietrificati davanti alla caduta improvvisa di quell’animale fiero e maestoso rovinato a terra e ora agonizzante nella paura della morte. Ricordo il sangue che scorreva dalla testa e i suoi grandi occhi terrorizzati che mi guardavano. Perché?
La caccia nella stirpe di mio nonno era considerata un’arte raffinata e mio nonno aveva molti trofei nella sua capanna. Ne era molto orgoglioso. Avremmo cenato di lì a qualche giorno, il tempo di lasciare uscire ogni traccia di vita da quel bellissimo animale che sarebbe stato appeso nella cantina e poi macellato. Fino a quel momento amavo molto il Rehbraten con i Knödel, i funghi finferli in crema e le bacche di bosco. Ora non potevo più pensare a quell’arrosto trionfale.
Né, tuttavia, avrei potuto concedermi il permesso di essere arrabbiata con lui perché era il mio amato nonno, lui che ci insegnava sempre tante cose e in modi spesso divertenti. Non erano ammesse lacrime, né domande. Questa era una cosa da grandi e lui ci aveva avvertito. Bisognava vivere la cosa con distacco, senso ineluttabile, fierezza.
Non ho per contro, mai potuto dimenticare il senso di ingiustizia e prevaricazione che poi è diventato un sentimento di vergogna che ho portato dento di me come un’energia intorpidita per tutta la vita. Sono affascinata e commossa dalla tenerezza e dalla incredibile fierezza dei cerbiatti. Della mia, non lo sono stata per tanto tempo.
Durante i viaggi sciamanici ho sempre incontrato cervo e cerbiatto come miei animali di potere.
Anni fa l’immagine del cerbiatto è tornata a nel mio romanzo Terra Pane che, come altre storie che ho scritto, è stato catartico nella risoluzione di tanti traumi ‘invisibili’ come questo. Mi ha aiutato a riconoscerli, a prenderne atto e a trasformarli.
Voglio condividere qui un brano del racconto per iniziare ad avvicinarvi al mio nuovo percorso creativo di risoluzione dei traumi.
“Méchin era preoccupata per il militare lassù tutto solo nella grotta. Appena fece chiaro, corse verso gli abeti al Pian ‘d la Charm e lo trovò ancora addormentato tutto stretto e accucciato come una volpe. Provò a svegliarlo ma non si muoveva, tanto era rigido per il freddo. Rimase lì a vegliare finché lui si svegliò e piano, la tirò verso di sé per darle un bacio. Provò a spiegarle che c’erano dei caprioli lì attorno se volevano aspettare un po’, che magari ne prendevano uno, a essere proprio fortunati. Si sedettero a ridosso di una piccola radura, sotto a dei giovani abeti, e rimasero in ascolto.
Lui le prese la mano e le accarezzò dito per dito come per contarglieli. Una cosa era certa, Méchin sentiva di averne tante, di dita, con tutti quei numeri difficili che lui ripeteva nella sua strana lingua straniera. Il militare aveva poi estratto un pugnale con l’impugnatura fatta di corno dalla giacca; bellissimo, con la lama tagliente. Lei rimase incantata, tanto era bello quel pugnale.
Passò un tempo molto lungo, poi, all’improvviso da dietro e con un salto leggero, il cerbiatto era sbucato dal bosco proprio sopra le loro teste. La neve attutiva quei movimenti lievi e scattanti. Il militare sferzò un colpo col pugnale ma mancò la preda che era già scappata oltre. Subito dopo saltò fuori dalla radura un secondo cerbiatto, forse era la mamma e lui, d’istinto, prese il fucile e le sparò.
Méchin corse verso la bestia morta sul colpo, con gli occhi sbarrati e il sangue a fiotti sul bianco. Anche il militare adesso aveva gli occhi spaventati perché si era reso conto dell’errore madornale. È finita, adesso è finita, mormorava nella sua lingua. Lo avrebbero sentito quello sparo, e sarebbero corsi su dalla borgata, i partigiani per ucciderlo.
Ma lui voleva proprio farglielo quel regalo, a Méchin.
Iniziò a guardarsi attorno spaventato, poi, come rassegnato a quello che doveva succedere, prese Méchin per mano a prendere il capriolo e insieme lo trascinarono fino alla meira lasciando una lunga scia rossa sulla neve tra gli abeti. Ebbe ancora il tempo di appenderlo per le zampe e lasciare che la vita colasse giù nel paiolo mentre lo preparava per il fuoco e per il salmì.
Sedette al tavolo e con un pezzo di carbone scrisse sul tavolo una cosa che le donne non sapevano leggere: Heimat. Voleva dire casa, patria, affetti indelebili. Poi si tolse l’orologio e lo diede a Méchin, prima di uscire nella notte. Non si voltò più, incamminandosi giù per quel sentiero dove s’iniziavano a sentire trambusti lontani.”