A noi, fabbricanti di sogni

La zuppa, quando è spessa che sta lì da due giorni, da più soddisfazione se la mangi col cucchiaio. Una pietanza di legumi e riso fatta con quell’ultimo sacchetto trovato nella dispensa dopo l’estate.

Settembre, come sempre, è un mese difficile per chi lavora nel mondo ormai precario delle consulenze; stagione simbolo alla quale sono state delegate le indecisioni. Ma forse, tutto sommato, di certi incarichi e certe relazioni professionali non ce ne importa nemmeno più.

E comunque sei lì che non sai niente. Che non hai niente. O almeno credi.

Ousman assaggia composto e con gli occhi contenti. Lo faceva così sua mamma, il pasto del giorno, il manognao. Lui è schivo e prima di incontrare il mio sguardo ci mette un attimo. Gli chiedo della sua storia, ma non è facile. Comprendo.

Mi dice che porta il nome di suo nonno. Ne è fiero.

Finisce svelto; gli offro una seconda porzione ma basta così grazie, la vuole lasciare a me. Si alza e prende i piatti per lavarli. Gli dico di stare tranquillo che faccio io. Insiste. Poi pulisce anche il lavello e lava il pavimento. Lo fa con quella grazia e quella cura che sono solo di chi onora l’attimo presente. Perché l’essenza è lì, coagulata e vibrante.

A Ousman queste cose semplici e potenti glie le ha insegnate la vita. Quella vera. Quella cruda.

Noi, davanti a quel piatto di riso. Noi, due storie e due cammini completamente distanti. Lì, davanti a quel semplice piatto di riso che amalgama le nostre anime e le nostre ferite e ci restituisce tutto in un grande e bellissimo sorriso.

Fine luglio. Una giornata torrida dedicata a sbrigare pratiche noiose.

Lo vedo davanti all’ufficio che scalpita composto con le sue scarpe da ginnastica. Mi accorgo che non sa bene come fare. Si avvicina gentile, mi mostra delle multe e cerca di spiegarmi che lui quel debito si impegna a pagarlo, appena avrà un lavoro. Sarà la prima cosa che farà. Vorrebbe anche aggiungere, in frammenti di frasi, che se avesse avuto un lavoro, il biglietto sull’autobus lo avrebbe pagato ben volentieri. Ma a quale sportello rivolgersi?

Andiamo, gli dico e per le multe, poi aggiustiamo tutto.

Ci prendiamo una bibita e ci sediamo su una panchina all’ombra di un viale secco. Sbuffo per il caldo. Stupida, che sono. Ousman mi parla del suo paese e del sanguinoso colpo di stato che c’è stato qualche anno fa.

È dovuto scappare nel terrore di deserti e prigioni e mari brutali.

È arrivato in Italia appena maggiorenne e ha fatto tutta la trafila che ben sappiamo.

Cosa sai fare? Mi spiega che sua mamma gli ha insegnato un poco l’orto, il cibo e ad aver cura delle cose. Ha saputo che mamma Jonfolo era morta quando è arrivato in Sicilia. Ma la cosa più importante, aggiunge, è che gli ha insegnato a essere un uomo giusto e a scegliere sempre il bene. Gli occhi si velano di un’ombra triste.

Ci salutiamo, mi lascia il suo numero e io il mio.

Ousman ora sta da me e qui, ha una casa. Mi chiede se può guardare i libri e provare a leggere insieme. Lo incuriosisce la favola di Shakyamuni, un grande libro illustrato. Gli racconto del buddismo e della mia fede. Lui prova a recitare il mantra con me: Nam Myo Ho Renge Kyo. Gli piace, lo ripete con me. Ma lui è musulmano, mi dice con gentilezza, e quella è la sua preghiera. Lo rassicuro: qui può pregare in serenità e sentirsi libero. Sorride grato.

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Sì desidero fare questa esperienza.